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In quartieri popolari e popolosi di Napoli «l’apprendistato di un gruppo di insegnanti di media cultura ed umanità per conoscere le periferie della città e le periferie dell’animo degli adolescenti, cercando di stabilire con loro un dialogo educativo e di vita».
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Non si esagera dicendo che la protagonista di Insegnare al principe di Danimarca è la scuola nella sua complessità. L’esperienza di Chance (di cui rimane traccia anche nel film Pesci combattenti) infatti diventa l’occasione per riflettere sul valore dell’insegnamento in una realtà attraversata da profondissimi cambiamenti, di fronte ai quali è evidente che non sia più possibile agire con criteri tradizionali. Anticipando le conclusioni, possiamo dire che il libro è un invito rivolto agli insegnanti (tutti) affinché compiano una vera rivoluzione copernicana, rinunciando all’atteggiamento mentale con cui abitualmente si pensano e pensano al proprio lavoro e andando al di là di qualsiasi impostazione prefissata in partenza, di qualsiasi disperante ed irrealistica (lo sanno bene quelli che alla scuola ancora credono) “didattica per obiettivi” e, ancora, di ogni presunzione di “onnipotenza pedagogica”.
Insegnare al principe di Danimarca suggerisce che fare scuola significa – comunque, anche nelle algide atmosfere liceali - calarsi in un contesto vivo, fondato sulla relazione con gli studenti, sullo scambio di emozioni, sulla reciprocità, nella convinzione però che talvolta “esistono ostacoli psichici interiori e relazioni insane più forti della conoscenza del mondo esterno, e finché non si opera un cambiamento di contesto è difficile il cambiamento individuale”. A queste considerazioni Melazzini giunge passando attraverso la complicata necessità di aiutare – gettando un “ponte su un abisso” – i ragazzi disadattati, affettivamente deprivati, abituati a vivere in situazioni familiari disastrose, spesso legate alla complicata galassia del mondo criminale. Confrontandosi con loro ha capito che fare l’insegnante vuol dire “dare significato alla parola”, perché è sullo scambio di parole che si fonda l’attività educativa. Ne consegue la necessità di saper “accogliere i silenzi, i veti, ma anche gli indizi, i suggerimenti, gli orientamenti da parte degli alunni, pena la perdita, appunto, della significanza”. La relazione buona, infatti, è quella in cui, non creandosi un rapporto di dipendenza (è il limite di tante azioni di volontariato sociale), “tu espliciti che stai ricevendo molto”.